David Foster Wallace potrebbe essere definito, per quanto siano limitate le definizioni, lo scrittore pop per eccellenza, nel senso più puro del termine, in quanto consacrato da una vasta e numerosa platea popolare, diffusa in ogni parte del pianeta. Una consacrazione dal basso, continua e incessante, durante la sua vita e, ancora di più, dopo la sua morte improvvisa nel 2008. Un autore cult, perché con la sua esperienza esistenziale è diventato l’in-attuale icona dell’assoluta identificazione tra vita e arte. A differenza del grande clamore e del favore che ha suscitato presso il pubblico dei lettori, la critica ha avuto verso la sua produzione letteraria un atteggiamento ambivalente: da un lato un ipocrita e superficiale apprezzamento, dall’altro malcelata o esplicita insofferenza. Atteggiamenti che derivano senz’altro dallo spirito apertamente anticonformista dello scrittore, dalla sua trasgressività intellettuale, dal suo sperimentalismo letterario, e quindi dalla difficoltà a collocare la sua narrativa in uno schema preconfezionato, in una corrente letteraria o grande scuola, che ha dominato gli scenari letterari americani degli ultimi trent’anni: minimalismo, massimalismo, postmodernismo, New Realism, Avant-Pop, New Sincerity. Wallace è uno scrittore complesso, che non scrive opere di intrattenimento, che piace anche al di fuori dei confini americani, dove folti gruppi di fan raccolgono materiali vari, interviste, informazioni.
Anche in Italia, dove il fenomeno Wallace è arrivato in tempi più recenti, è nato il sito Archivio DFW Italia, un gruppo di appassionati wallaciani che a ridosso della pubblicazione postuma del Re pallido, hanno lanciato una lettura collettiva del romanzo, oltre a raccogliere tutto il materiale possibile, dal web e non, sullo scrittore. Quando è morto suicida nel 2008, nella sua casa di Claremont in California, aveva quarantasei anni. Fu sua moglie Karen Green che, rincasando dopo un’assenza di poche ore, trovò il corpo di Wallace esanime. Era stata un’assenza di poche ore, durante la quale lui aveva scritto una lettera di due pagine per lei, aveva risistemato i capitoli già terminati del romanzo che aveva rinunciato a concludere mesi prima, pile di altri fogli e la scena della sua definitiva azione. Lui stesso, come molti dei suoi personaggi, è stato vittima di un addiction. L’astinenza dai farmaci antidepressivi, che ormai prendeva da anni, è stata insopportabile per lo scrittore di Ithaca, che già precedentemente aveva tentato il suicidio, per essere poi salvato in extremis. Come i numerosissimi personaggi che popolano Infinite Jest affetti dalle più diverse dipendenze (sono annoverate anche dipendenze dai cruciverba, dalle opere di carità, dalla grammatica), Wallace ha sofferto personalmente le peggiori conseguenze dell’astinenza, descritte così efficacemente e crudelmente nel romanzo. La sospensione del suo farmaco depressivo, nell’estate del 2008, per una banale intossicazione alimentare, lo fa precipitare nel baratro, nonostante una certa stabilità raggiunta nella sua vita: un impiego universitario che amava, una vita matrimoniale soddisfacente, una casa propria, due cani, l’indiscusso successo editoriale e giornalistico.
Stava scrivendo un altro romanzo, una Longer Thing: un romanzo ambizioso, ironico sulle vite noiose e ripetitive degli impiegati di un’esattoria federale americana. Per immedesimarsi nel ruolo aveva frequentato corsi professionali ragionieristici, così da acquisire la terminologia tecnica e i modi di pensare e di agire di questi impiegati. Aveva scelto di rappresentare le vite di questi contabili, in quanto esemplari riguardo alla noia quotidiana in cui si può restare intrappolati, senza apparenti vie d’uscita, in un circuito vizioso di riti quotidiani senza fine. La noia mortale che attanaglia l’uomo. In una nota dattiloscritta, trovata tra le sue carte dopo la sua morte, Wallace descrive la premessa del libro:
La beatitudine – cioè la costante sensazione di gioia e gratitudine per il semplice dono di essere vivi e consapevoli – si trova all’opposto della noia mortale. Provate un po’ a dedicarvi alla cosa più noiosa di questa terra (la dichiarazione dei redditi, le partite di golf trasmesse alla tv) e una noia come non avete mai provato in vita vostra vi travolgerà e praticamente vi ucciderà. Uscitene indenni e sarà come passare da una visione in bianco e nero a una a colori. Come trovare l’acqua dopo giorni trascorsi nel deserto. Un’immediata beatitudine che si sprigiona da ogni atomo.
Il modo più spontaneo per uscire dal solco creato con Infinite Jest, era scrivere un romanzo sul diretto contrario dell’entertainment. Un romanzo abbastanza impegnativo per lo scrittore che, in questo caso, si era proposto di scrivere in una nuova maniera ed era preso da continui dubbi sulle proprie capacità di romanziere, sull’efficacia della propria scrittura. In più, l’instabilità psichica resa sopportabile dal farmaco che poi verrà sospeso. Wallace sospenderà la composizione del romanzo. Se ne conosce il titolo, Pale King (Re pallido); ne sono state ritrovate circa trecento pagine, un terzo del totale previsto, più un’infinità di carte preparatorie, complementari, bozze. Non solo nel post Infinite Jest il suo rapporto con la scrittura è stato sempre caratterizzato da una lotta continua, una lotta quotidiana, una crociata condotta contro la rabbia, la noia, la frustrazione che hanno condizionato tutta la vita di Wallace, a partire dalla scelta di abbandonare la vita accademica e una futura carriera universitaria, per l’attività di scrittore, andando contro la volontà e le idee del padre. Scelta di cui sentirà sempre il peso, la frustrazione, l’umiliazione. La scrittrice Zadie Smith, sua accanita ammiratrice, scrive:
Si sarebbe guadagnato più facilmente l’approvazione all’interno del mondo accademico dal quale proveniva che nel mondo letterario di cui entrò a far parte. Eppure, intorno ai vent’anni, Wallace scelse la strada meno facile.
L’incontro di Wallace con la scrittura era ineluttabilmente nel suo destino. Wallace era stato sin da bambino un vorace lettore, avvicinato alla lettura dai genitori: il padre James, professore universitario di filosofia; la madre Sally Foster, anche lei laureata e con una grande passione per la grammatica e le parole. Per Wallace la madre era un punto di riferimento molto importante, il centro del suo universo, una donna istruita e intelligente che trasferì al figlio l’importanza di avere una perfetta padronanza del linguaggio e degli strumenti espressivi, una figura così significativa nella sua vita che senz’altro ricorda il personaggio di Avril Incadenza che, in Infinite Jest, è la co-fondatrice dei “Grammatici Militanti del Massachusetts”. Max nella sua recentissima biografia su Wallace così descrive il loro rapporto:
Nessuno ascoltava David quanto sua madre. Sally era intelligente e spiritosa, ispirava fiducia, e lo contagiò col suo amore per le parole. Anni dopo, pur affrontando la tormentosa eredità dell’infanzia, David avrebbe ricordato con affetto la passione per le parole e la grammatica che Sally aveva saputo trasmettergli. Nel caso mancasse un termine specifico per indicare qualcosa, Sally lo inventava: i pilucchi di cotone, in particolare quelli che i piedi finiscono per portare nel letto, erano così greeble; twanger era il vocabolo con cui riferirsi a qualcosa di cui non conoscevi il nome, o di cui l’avevi dimenticato. Sally adorava la parola fantod, che alludeva a un sentimento di paura viscerale o di repulsione: i cosiddetti fantod urlanti ne erano l’espressione più estrema. Queste parole, come molte altre risalenti all’infanzia, si sarebbero poi ripresentate nell’opera dello scrittore.
Anche il padre di David avrà un ruolo significativo, soprattutto per quanto riguarda la sua formazione scolastica e il corso che prenderà la sua vita, la sua capacità decisionale. Il padre leggeva a David e alla sorella Amy, fin da piccoli, Moby Dick, ben consapevole delle difficoltà insite in un libro così ostico per due bambini. Wallace divenne ben presto un gran divoratore di libri, leggeva molti romanzi e quasi tutto quello che trovava nella libreria di casa: dalla collezione di “The Pearl”, rivista porno clandestina del diciannovesimo secolo ai giallisti più in voga, dalle letture filosofiche ai grandi scrittori come Updike e Kafka. Ma l’incontro per lui determinante, quasi fulminante, con la letteratura fu il racconto postmoderno di Donald Barthelme, Il Pallone, che narra della comparsa improvvisa di un pallone sul cielo di Manhattan. Mentre il pallone vaga e si dilata, al di sotto scorrono le storie dei vari personaggi che si avvicendano sulla scena. Ciascuno lo esamina e esprime il suo punto di vista, il suo pensiero. Questo oggetto diviene parte della città, della sua mappa, una presenza fisica ingombrante, allo stesso tempo affascinante e fastidiosa. Un punto di ritrovo, un oggetto con cui i bambini giocano, mentre gli adulti si lamentano della sua inutilità. Una storia costruita dal narratore, così come il pallone, suo artefatto/artificio, realizzato per sentirsi meno solo e, che decide di sgonfiare appena non serve più al suo scopo.
Ben presto Wallace s’imbatté in un’altra opera postmoderna, L’incanto del Lotto 49 di Thomas Pynchon. Era stato l’amico Charlie McLagan a consigliargli la lettura. L’incanto era un’opera metanarrativa ironica, sensibile alla cultura pop e mainstream – canzoni commerciali, thriller e programmi televisivi – convivono con contenuti più seri. Pynchon tentava di inglobare l’enormità dell’America nel suo romanzo, cosa che Barthelme non aveva mai tentato di fare. Fra gli scrittori contemporanei, Wallace, indubbiamente, eredita da Pynchon la capacità di rappresentare in letteratura il caos, segnalandosi come una delle “menti migliori”, senza azzardare la definizione di “classico” della letteratura. Senza volerlo e neanche immaginarlo, è diventato un personaggio seguito, amato, osannato, esempio codificato di una generazione di lettori e scrittori. A differenza di uno scrittore come Don DeLillo, a lui molto vicino, le cui notizie biografiche sono sempre trapelate con non poca difficoltà, persino le sue foto e le sue apparizioni pubbliche scarseggiano, Wallace diviene un punto di riferimento. Le sue immagini spopolano così come i suoi scritti, diciamo pure che Wallace deve abituarsi molto presto alla notorietà e ai suoi disagi, fin dai tempi dell’università. Questo non significa che Wallace amasse stare al centro dell’attenzione mediatica o sotto i riflettori, anzi ha quasi sempre cercato di nascondersi dietro la sua opera, così come il suo scomodo predecessore Pynchon. Anche se non sempre era possibile celare la sua figura dietro i suoi scritti, soprattutto quelli saggistici, che rappresentano una parte significativa e importante della sua opera omnia.
I suoi scritti di stampo saggistico e giornalistico sono poi confluiti in raccolte: A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again (Tennis, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più, minimum fax 1999); Consider the Lobster (Considera l’aragosta, Einaudi 2006); Sygnifing Rappers (Il rap spiegato ai bianchi, minimum fax 2000), scritto a quattro mani con Mark Costello. Questi saggi vari e variegati aiutano a spiegare il valore complessivo dell’intera produzione narrativa, costituita da tre raccolte di racconti (La ragazza dai capelli strani, Brevi interviste con uomini schifosi, Oblio) e da due imponenti romanzi, La scopa del sistema e Infinite Jest. Il primo, pubblicato nel 1987, accolto favorevolmente da critica e pubblico, nasce come una tesi di laurea e presenta una scrittura per niente acerba o incerta, segnando l’efficace esordio di uno scrittore venticinquenne, sicuramente sopra la media, tanto che nelle recensioni già viene accostato agli scrittori Pynchon e DeLillo, verso i quali ammette il proprio debito. Il romanzo come la coeva tesi in Filosofia erano due facce della stessa medaglia: entrambe si interrogavano sul problema del linguaggio e cioè, se esso si limitasse a descrivere il mondo o se arrivasse a plasmarlo e definirlo. Il linguaggio è quindi un limite o il trampolino di lancio verso la scoperta della realtà e della verità delle cose? Wallace era alla disperata ricerca di una visione del mondo veritiera e reale. Con i suoi amici faceva circolare per il campus un esempio riguardo al difficile rapporto tra parole e cose: qual è la parte più importante di una scopa, il manico o la spazzola? La risposta è: dipende dal fine. Wallace ambienta La scopa del sistema in un futuro prossimo, nel 1990, e sul piano narrativo il personaggio principale rappresenta il suo alter ego, che incarna i suoi dilemmi filosofici. Con gli anni disconoscerà il romanzo, definendolo un’opera scritta da “un quattordicenne cervellone” e ancora, un’insulsa autobiografia mascherata.
Ma Wallace non fu obiettivo verso se stesso, e ne darà dimostrazione in seguito, soprattutto con il suo romanzo maggiore, Infinite Jest, che rispecchia a pieno la convinzione del suo autore, per cui “un romanzo narra che cosa vuol dire essere un fottutissimo essere umano”. Con questo monumentale romanzo, Wallace riesce a catturare l’esprit du temps, ad incarnare l’autocoscienza moderna dell’America contemporanea, riprendendo, con le dovute differenze, il progetto della Comédie Humaine di Honoré de Balzac. Lo stesso Wallace ammette di ammirare molto lo scrittore francese, che per lui è fonte di ispirazione, lo annovera tra i suoi maestri letterari e, del resto come possiamo non ravvisare nel suo megaromanzo, Infinite Jest, la proliferazione di quella giungla umana e sociale, che già Balzac aveva tentato di “enciclopedizzare”, nelle sue 137 opere raggruppate sotto l’inevitabile nome di La Comédie humaine; o ripensare al personaggio di Norman Bombardini in La scopa del sistema, un industriale con la mania di ingozzarsi cibo allo scopo di ingurgitare tutto il mondo, così come l’opera di Balzac intendeva fare, per poi vomitarlo fuori attraverso le sue pagine.
Wallace si muove nella foresta umana, si muove perché spinto alla ricerca di qualcosa, non qualcosa di spirituale, di certo non Dio. Assente è la speranza continuamente frustrata, che nutrivano nei confronti di Dio e della sua venuta, i personaggi di Aspettando Godot, di Samuel Beckett. Il mondo di Wallace è dominato dal nichilismo, sembra estremo, eppure è così. In Wallace non troviamo né la speranza di salvezza tramite Dio, né la rassegnazione alla perdita di questa speranza: l’unica possibilità è l’uomo e la sua forza di volontà nella libertà. Dio è assente anche nel suo capolavoro, Infinite Jest, talvolta Mario chiede al fratello Hal se crede in Dio, ma Hal non ama rispondere a domande di questo tipo e cerca di evitarle; quando è costretto a rispondere dice che se Dio esiste non deve essere venerato:
E allora stanotte, per farti star zitto, ti dirò che con Dio ho due o tre conti in sospeso, Boo (Mario). Mi sembra che Dio abbia un modo piuttosto disinvolto di gestire le cose, e questo non mi piace per nulla. Io sono decisamente antimorte. Dio sembra essere sotto ogni profilo premorte. Non vedo come potremmo andare d’accordo sulla questione, lui e io, Boo.
Il sacro in Wallace non ci è dato, non è un dono per cui provare gratitudine, ma è qualcosa che imponiamo all’esperienza. Poter avere (conseguire) la libertà di considerare la noia infernale un momento felice, trovare conforto persino nei momenti più burrascosi, in una sola parola raggiungere uno stato di beatitudine. Quando nel 2005, Wallace si trova di fronte una platea di speranzosi giovani laureati, al Kenyon College, cerca di offrire loro una scappatoia da un tipo di esistenza banale e crudele; semplicemente svelando a loro il segreto, che consiste non nell’imparare a pensare, come insegnano nelle facoltà umanistiche, ma nello scegliere come e a cosa pensare, per poi concludere con queste parole:
Ma per favore, non liquidate questo discorso come il sermone del solito professorone che agita il dito. Niente di ciò che ho detto ha a che vedere con la morale, la religione o i dogmi, o coi dilemmi sulla vita dopo la morte. La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte. Riguarda la possibilità di riuscire ad arrivare ai trenta, o ai cinquant’anni, senza che vi venga voglia di spararvi un colpo alla testa. Riguarda la semplice consapevolezza di quello che è così vero ed essenziale, così nascosto in bella vista attorno a tutti noi, che dobbiamo continuare a ripeterci costantemente: “Questa è l’acqua, questa è l’acqua”.
Il discorso fa leva su alcuni cliché, apparentemente privi di interesse, che rivelano verità profonde in controtendenza rispetto alla scrittura postmoderna che predilige le sofisticazioni, gli intellettualismi, i principi sofisticati ed estetizzanti a discapito di quelli più semplici, eppure veritieri. Un attacco all’avversione alla semplicità del postmoderno. E qui la semplicità sta nell’asserzione finale che si ricollega alla storiella che apre il discorso, quella in cui dei pesci sono protagonisti :
Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?”.
Imparare a rispondere a questa domanda così scontata, secondo Wallace, è imparare a trovare la chiave per sopravvivere nella giungla esistenziale quotidiana.