Fenysia | BLOG
i n v i a t e c i
i vostri racconti e le vostre poesie
L’altarino di maggio
Le rose il profumo
salito su per il naso
come quello dei biscotti
la mattina
le forbici delle unghie
tagliavo le rose sulla pianta
dietro al pollaio
la mattina
i bicchieri rubati in cucina
sopra la sedia
la scatola da scarpe
ricoperta
una tovaglietta ricamata del corredo di mia madre.
La madonna di Pompei
il santino del catechismo
i bicchieri
le rose dal gambo mozzato
il rosario a guarnizione.
La madonna in alto sopra la scatola
le rose in basso
mi inginocchiavo e pregavo.
Dal giorno uno di maggio
al trentuno finito
la mattina
cambiavo l’acqua alle rose
annusavo le rose polpose.
Al mese della madonna e delle rose
inginocchiata chiedevo
che la mia cattiveria si tramutasse in bontà.
Spiegaglielo tu ai due soldati
coi loro cappelli e le armature
che m’interrogano senza dire una parola
e mi tengono a bada con lo sguardo
che non hanno imboscate da temere.
Il tuo cuore è al riparo dall’assalto della mia bocca
oggi,
ma la carne no, ne ho voglia adesso.
E’ fatica presidiare tutta quella terra
sai;
sono in due soltanto
e se pure aggiungessimo le mani e le gambe
sarebbero solo in dieci,
troppo pochi per riparare alla fame della mia bocca
che se li gusta i tuoi soldati
e più ne metti a guardia di te stessa
e più si arma di desiderio proprio di loro.
Non c’è nulla di te che io non ami
e non desideri consumare
per riaverlo moltiplicato.
E la mia bocca non è stata mai tanta
e così bellicosa.
– Giuseppe Belcore
– Giovanni Gerini
Bisogna avere pazienza con le mamme
Bisogna avere pazienza con le mamme.
Invecchiano senza avvisarti
e questo proprio non te lo aspetti
da chi ti lascia bambino per sempre.
Il suo cuore gigante si stanca con il tempo
indispettito per averlo sfidato a restar fermo
a guardarvi giocare,
ma conserva sempre una stanza per te,
aspettando ritorni dal tuo giro per il mondo.
E ti accorgi che era lì la tua casa
solo quando portano via i mattoni a uno a uno,
mentre lei saluta dalla finestrella
distribuendo baci
con la mano tremante per l’emozione
e scende le scale fermandosi a ogni gradino,
per riprendere fiato e acquietare,
con un cenno papale della mano sana,
gli angeli soccorritori,
che invece hanno premura di accompagnarla
prima che le sue ossa patiscano l’umidità della terra.
Solo gli occhi la legano ancora a questo mondo
e sei tu l’ancora di quella vecchia barchetta
che stenta a partire
mica per paura del mare.
Allora la senti la fune
che ti scivola dalle mani rosse per l’attrito.
Mentre si allontana, le stringi di più per frenare la corsa
per sempre,
ma lei ti apre dolcemente le dita a una a una,
come faceva quando doveva seminarti un bacio
proprio lì nel mezzo e tu, ricordi?
le richiudevi subito a pugno.
Ti chiede di lasciarla andare sorridendoti
da lontano ormai.
La barchetta non c’è più,
solo una scia rimane ancora per poco
a disegnare un sorriso sull’acqua.
Ma ci sei tu sul molo a salutarla e lei è felice:
suo figlio è tornato
e la stanza è ancora lì nel suo cuore
senza malta né mattoni.
(silenzio)
Tranquillo, quello che senti
è il rumore delle vele strattonate dal vento
e stirate fino all’anima di filo,
non è certo il tuo cuore
che palpita e picchia da martello sul tamburo del tuo petto,
nell’attesa di rivederla un giorno.
– Giuseppe Belcore
Neppure una carezza
Se ne sono andati di notte,
in fila indiana,
su camion militari senza finestrini,
senza essere visti e senza salutare.
Che pena per l’esercito
costretto a scortare i caduti
senza aver combattuto.
Solo il silenzio piange quei morti.
Tante storie indistinte da nessuno raccontate.
Si sommano come numeri
senza la pena di uno sguardo al contenuto…
Come possono respirare, vedere
dentro quei camion senza aria e senza luce?
Come possono sentire il pianto strozzato dei loro figli
da sotto quei tendoni verde militare,
dove sono stati ricomposti alla meglio e sigillati
da mani impaurite e pietose solo per dovere?
I figli, i fratelli piangono a distanza
dentro le loro autovetture,
uno solo a bordo
se l’altro è in quarantena.
Volevano chiedere un ultimo perdono
a quelle vecchie bocche,
tremanti per la gioia di saperli ancora figli
non certo per l’assoluzione
che arrivava sempre, già prima del peccato.
Non volevano andare via
in un silenzio così estraneo
Luigi,
Alberto
e nemmeno Antonio,
Luca,
Sara,
Paolo,
Filippo
e Simona.
Avrebbero voluto almeno un’ultima carezza,
uno sguardo,
il loro biglietto di ritorno.
Invece sono annegati a riva,
dopo la fatica straziante e inutile dell’ultima bracciata.
Nelle loro ampolle di plastica trasparente
di finti astronauti
non ci sono pesciolini rossi
ma lacrime
a riempire il vuoto di un abbraccio.
Qualcuno allunga esausto una mano
oltre la linea d’acqua,
annaspando ormai senza speranze.
Grida aiuto… ma pare salutare.
Sono soli anche se sono in tanti.
Poveri morti e poveri anche i vivi.
Il loro sguardo sul mondo
non va oltre la nebbia liquida delle loro lacrime
ingoiate a malapena per l’affanno
nel silenzio metallico e ossessivo dei respiratori.
Il groppo alla gola è di chi è costretto
ad assistere senza essere figlio
quindi inerme,
fingendo che non sia la fine della partita
quel fischio insistente nella stanza
Neppure una carezza da dentro lo scafandro
è immune dal contagio del dolore,
un virus che aggredisce solo certi cuori.
A fine turno la corazza è gettata lì per terra.
Non ha i segni della lotta
eppure la soldatessa ha una smorfia triste,
come un fiore deperito
sbocciato sul bordo della bocca semiaperta.
Si tiene il petto con la mano senza guanto,
come fosse trafitto da una spada
che ha cercato il punto esatto
dove il cuore batte proprio per chi ne ha bisogno.
22 marzo 2020
– Giuseppe Belcore
Un’ emozione
L’emozione è una parte di te
che ogni tanto sale nel cuore,
è un pezzo di anima senza nome
fatta di sangue, lacrime e sudore.
L’emozione è un brivido improvviso
che rimane per sempre in mente,
è un punto, uno sguardo, un sorriso
che scivola via e non lascia niente.
L’emozione è un ricordo lontano
che riaffiora nel tuo presente:
può esser nebbia, un campo di grano
giallo-azzurro al sole splendente,
un airone che imponente svetta in aria
come le tue emozioni perdute
nel triste momento di un rimpianto
di occasioni perse e mai vissute.
L’emozione è un fragile segreto
che tieni nascosto senza un perché,
un giorno, un minuto, quasi inconsueto
lampo nel buio di mille “se”.
L’emozione è ricerca di un mistero
così indicibile da riuscire a svelare,
è un libro non scritto, profumo di vero,
è una pagina strappata da raccontare.
Se la cerchi ne troverai a milioni
dentro ogni esistere che si fa vita,
e come le stelle vive in costellazioni
che resistono il corso di lente stagioni
e rimangono appese ad un filo sottile
che solo un amore potrebbe spezzare,
emozioni discrete e malinconie
della ragazza che ti ha fatto innamorare.
L’emozione è una strana canzone
che non riesci più a dimenticare,
è un motivo che gira in testa per ore
e non vorresti mai più cancellare;
è il ripetersi di uguali, effimeri istanti,
irripetibili momenti di un’emozione,
sono persone, amici, locali, amanti,
oscuri tramonti e tempeste di sole.
L’emozione è il grido di un bambino
che non riesce a calciare un pallone,
è un poeta che gioca a nascondino
e non ricorda dove ha messo le parole.
L’emozione è una poesia scritta male
che forse non piacerà a nessuno,
è una corsa veloce, troppo normale
descrizione abituale di sogni di fumo.
– Simone Fagioli
Fuori dalla porta la pandemia
Sirene di ambulanze a scandire il silenzio
E le nostre ore senza fine
Dentro io e te
Riparati dal cemento della città.
Tra le lenzuola tiepide
Nasce un nuovo giorno languido
Ed è l’odore acre della tua pelle
Dormire il pomeriggio
Le pagine che sfogli sdraiato sul divano
Il tempo sospeso fino al tramonto
Il sibilo dei fornelli e il vino rosso.
Un torpore contagioso
E fuori la malattia
La cancrena ai polmoni
La fame d’aria
La tosse infetta
E la fretta
La metropolitana
Le ferie
I programmi del fine settimana.
E di giorno guardiamo la tv
E di notte guardiamo fuori dalla finestra
E prima o poi finalmente ritorneremo
A rimandare
A sbagliare
A buttare il tempo via.
-Francesca del Boca
PRIMAVERA
Nevica silenziosa la primavera
anche qua ai confini della città
– morta, malata d’un nuovo colera –
e ci dimostra che la vita va avanti
con tremenda e incessante alacrità.
Infatti essi non sanno, i nostri defunti,
– morti nelle morte stagioni
caduti come foglie d’Ottobre consunte –
che la natura ha continuato il suo corso
e che di fermarsi non ne ha nessuna intenzione.
Della morte è questa la dolorosa prerogativa:
chi smette di contar le proprie primavere
non più si gode la presente, ch’è viva
e anche di tutto il resto ne è all’oscuro
in quel mondo scuro cui è guardia un gondoliere.
– Caterina Baronti
DIO NON GIOCA A DADI
Dio come al solito è servito
gli altri passano e ora uno dovrebbe rilanciare
ma non c’è più la forza di bluffare.
– Giovanni Gerini
ORTENSIA CAPITALE
Sentirlo dentro
Il petto
Come all’arrivo
Onde-del-mare
Così negato
È l’estremo dolore
Di spuma e memorie
Eppure
Tu che portavi
Il nome di “niente”
Eri acqua del mio fiore.
(Aver cura dell’acqua come del fiore).
– Marta Meli